di Piero Bianucci,
pubblicato su lastampa.it
Vischio a Capodanno? No, meglio il Ginkgo biloba, un fossile vivente che risale a 200 milioni di anni fa, il tempo che il Sole impiega per compiere un’orbita intorno al centro della nostra galassia. Il botanico Peter Crane ne racconta la storia: vive in coppia (“marito” e “moglie”), in autunno ha colori stupendi, un albero può avere un milione di foglie e diffonde mille miliardi di granelli di polline.
Non ho mai capito chi incomincia l’anno scambiando baci sotto un cespuglio di vischio, pianta parassita dalle bacche velenose e appiccicaticce. Mi sembra di cattivo gusto e pessimo auspicio. Per le effusioni di Capodanno propongo una pianta diversa: il Ginkgo biloba. Agli innamorati piacerà perché questi alberi vivono in coppia e, sposi legittimi o amanti che siano, sono fedeli: le radici garantiscono l’unione a vita.
Giallo luminoso
Chi ha visto un Ginkgo biloba all’inizio dell’inverno non dimentica più il giallo luminoso delle sue foglie pendule dai rami e il tappeto d’oro che formano sul prato intorno al tronco (foto in alto). Al sole splendono, in un crepuscolo rosa sembrano emettere luce propria. Difficile da dimenticare è anche il tanfo dei suoi frutti marcescenti sparsi in terra. C’è una coppia di queste piante – marito e moglie – nel giardino storico “La Marmora” davanti alla mia casa di Torino. E’ una gioia poterla ammirare ogni volta che infilo i portici verso piazza Castello ed è divertente osservare i passanti ignari che si ispezionano le suole delle scarpe sospettando di aver pestato qualche fetido escremento.
Puzza e bellezza
Sommando algebricamente bellezza e puzza, a mio parere vince la bellezza. Non tutti però la pensano così. I malcapitati che abitano lungo un muro perimetrale dell’Orto botanico di Pisa volevano far abbattere un Ginkgo (femmina, naturalmente) affacciato sulle loro case: hanno rinunciato dopo essere stati istruiti sulla eccezionalità di quell’albero. Perché il Ginko è un albero speciale, e come tale va trattato. Chi vuole conoscerlo a fondo legga un libro appena pubblicato dall’editore Leo S. Olshki: l’autore è Peter Crane, il titolo “Ginkgo, l’albero dimenticato dal tempo”, traduzione di Gianni Bedini, presentazione di Fabio Garbari (256 pagine, 25 euro, molte foto a colori). E’ una enciclopedia monografica su questa pianta straordinaria ma anche un invito a capire meglio l’evoluzione biologica, la cosiddetta Grande Storia nella quale la piccola storia dell’uomo è poco più di un lampo.
L’Universo a 360 gradi
Battezzato da Linneo con la sua nomenclatura binomiale del 1771, il Ginkgo biloba è un fossile vivente. Discende in linea diretta da avi che risalgono a 200 milioni di anni fa, cento milioni di anni prima che il mondo vegetale si colorasse di fiori. Le sue foglie, inconfondibili, si conservano bene compresse negli antichi strati geologici. Studiarne la storia e datarle è abbastanza facile. Dentro le rocce di Molteno, nel bacino del Karoo, Sud Africa, i paleobotanici hanno scoperto foglie di Ginkgo condilobata vecchie di 220 milioni di anni ma già simili a quelle nostre contemporanee. Fossili provenienti sull’Afghanistan sono un po’ più recenti: da 200 a 175 milioni di anni fa. In duecento milioni di anni il Sole percorre la sua orbita intorno al centro della Via Lattea, la radiosorgente Sagittarius A. Parliamo dunque di una pianta che, dalla sua comparsa ad oggi, ha compiuto un giro completo intorno al buco nero che sta nascosto nel cuore della nostra galassia. Una pianta che ha guardato l’universo a 360 gradi…
Nei giardini di Torino
Le origini sono cinesi, figli e nipoti delle piante viaggiano con il vento, l’acqua dei fiumi e dell’oceano e, di recente, soprattutto con l’uomo. L’ultima glaciazione, terminata diecimila anni fa, ha dato un colpo duro al Ginkgo bilobata ma ora grazie all’uomo questa pianta è di nuovo diffusa alle medie latitudini di tutto l’emisfero boreale, dal giardino della Casa Bianca all’Oak Park di Chicago ai viali di Tokio. E’ una storia meno drammatica ma simile a quella del pino di Wollemi, salvato in extremis dall’estinzione e adesso disseminato ai quattro angoli del pianeta. Nel 2009 il Duca di Edimburgo piantò un pino Wollemi nel Royal Botanic Gardens Kew e la regina Elisabetta vi mise a dimora un Ginkgo. Con entrambe le piante l’uomo ha stretto un’alleanza nel nome di una visione organica di tutti i viventi. Per il Ginkgo non è una novità: quelli di Torino risalgono ai giardinieri dell’Ottocento, a loro volta lontani eredi del francese André Le Nôtre (1613-1700), una tradizione di cura del verde cittadino che continua tuttora nelle poetiche installazioni artistiche di Rodolfo Marasciuolo.
Grande fecondità
Il Gincko non è l’unica pianta con generi sessuali separati, è però un caso particolarmente vistoso che interroga i biologi su quale sia il vantaggio evolutivo di questa differenziazione. E’ possibile, come suggerì Darwin, che l’impollinazione su alberi separati favorisca la diversità genetica meglio dell’impollinazione su piante che portano su di sé sia l’apparato maschile sia quello femminile, ma è strano che il patrimonio genetico del Ginkgo sia mutato di pochissimo in 200 milioni di anni. Statisticamente, le probabilità che avvengano mutazioni non mancano. Il Ginkgo maschio è estremamente fecondo. I suoi grani di polline misurano 20 millesimi di millimetro e si calcola che una pianta alta 10-15 metri ne liberi mille miliardi ad ogni stagione. Il frutto maturo ha l’aspetto di un acino d’uva bianca. Il suo marciume maleodorante è un concime che rende facile la germinazione del seme.
Un velo di cera
Le foglie del Gingko, circa un milione in una pianta adulta, oltre ad avere una forma elegante, sono particolari per più aspetti. Le ricopre una sottile pellicola trasparente protetta da un velo di cera. Le loro venature non hanno incroci, divergono leggermente a ventaglio a partire dal lungo picciuolo. Osservate con un microscopio a basso ingrandimento rivelano un ordine geometrico, una simmetria che parla di epoche remote. Il lato esposto al sole, dove i cloroplasti sono impegnati nella fotosintesi, è molto diverso dalla pagina inferiore, dove troviamo gli stomi, le piccole finestre che permettono la respirazione della pianta, riforniscono i cloroplasti di anidride carbonica assorbita dall’aria e, aprendosi e chiudendosi, regolano l’umidità amministrando l’acqua in risalita dalle radici. “Il ginkgo – aggiunge Crane – ha la più sincronizzata caduta delle foglie di qualsiasi altro albero che conosco (…) Perché ciò accada con inquietante sincronicità, non lo sa nessuno”.
Simbolo di longevità
Nella cultura cinese, coreana e giapponese, la lunga vita del Ginkgo ha fatto associare questa pianta alla salute e alla longevità. La medicina tradizionale ne ha quindi esplorato eventuali proprietà terapeutiche. Il frutto ha trovato applicazione nella lotta ai parassiti; abbrustolito e ridotto in polvere curerebbe l’asma, le secrezioni vaginali e le piaghe della pelle. L’estratto di foglie di Ginkgo è usato per contrastare le malattie vascolari periferiche e il restringimento delle arterie. Non mancano però le controindicazioni. L’avvelenamento da semi di Ginkgo è noto dal 1709, quando fu descritto in Giappone. Il rivestimento carnoso del seme, oltre all’acido butirrico, contiene tre specifici composti allergenici: l’acido ginkgolico, il ginkgolo e il bilobolo. “La vera prova dell’efficacia terapeutica del ginkgo – conclude Peter Crane – è ancora di là da venire”.
Finisce l’Anno della salute delle piante
Per decisione delle Nazioni Unite, questo 2020 che sta per concludersi è stato l’Anno Internazionale della salute delle piante. E’ dunque il momento giusto per pubblicare, e per leggere, un libro sul Ginkgo. Ci aiuterà anche a ricordare che molte piante rischiano l’estinzione per il cambiamento climatico e per un’agricoltura troppo aggressiva. Stando all’ultima valutazione delle 800 specie di conifere e cicadofite, gruppi di piante comparse nel Permiano, all’incirca coetanee del Ginkgo o di poco precedenti, una su tre potrebbe scomparire.
Articolo pubblicato il 28 dicembre 2020, su lastampa.it, sezione Scienza