Un team di astronomi dell’Università di Boston ha individuato un punto caldo (hot spot) dalla forma asimmetrica sulla superficie di una stella in formazione, Gm Aur, a 450 anni luce da noi. L’osservazione della luce nelle varie lunghezze d’onda conferma i modelli teorici relativi ai flussi di gas magnetizzati che trasportano le particelle provenienti dal disco protoplanetario. Lo studio, pubblicato su Nature, potrebbe fornire nuove informazioni sull’aspetto del Sole nella sua “infanzia” e sulla formazione del Sistema solare
Quando una stella si sta formando – spiega Catherine Espaillat della Boston University, prima autrice dello studio – divora particelle di gas e polvere che le vorticano intorno in quello che viene chiamato disco protoplanetario. Quest’ultimo si trova all’interno di una nube molecolare magnetizzata, una regione del cosmo in cui densità e temperatura del mezzo interstellare favoriscono la formazione di nuove stelle. Le particelle del disco protoplanetario seguono il campo magnetico fino ad arrivare alla stella (accrescimento magnetosferico), e quando si scontrano con la superficie dell’astro si formano i cosiddetti hot spot, punti in corrispondenza dei flussi magnetici in cui il gas è estremamente caldo e denso.
Al momento è impossibile fotografare una stella così lontana come Gm Aur, ma si può sfruttare il fatto che le diverse regioni della superficie di una stella emettono luce a diverse lunghezze d’onda. Gli “occhi” del telescopio spaziale Hubble, del Transiting Exoplanet Survey Satellite (Tess), dell’Osservatorio spaziale Swift e della rete globale dei telescopi dell’Osservatorio Las Cumbres hanno dunque rilevato lo spettro elettromagnetico della stella a raggi X, ultravioletti, infrarossi e in luce visibile. Evidenziando la presenza di una regione di forma unica su questa baby stella, i dati raccolti confermano per la prima volta i modelli teorici di accrescimento che gli astronomi avevano sviluppato per prevedere la formazione degli hot spot.
Gm Aur impiega circa una settimana per compiere una rotazione completa, e ci si aspettava che in quel periodo la luminosità aumentasse e diminuisse in base alla visibilità del brillante hot spot rispetto alla Terra. Ma i dati raccolti mostravano un’incongruenza: la luce Uv raggiungeva la sua massima intensità circa un giorno prima rispetto a tutte le altre lunghezze d’onda, che invece toccavano il picco contemporaneamente. «Li abbiamo esaminati così tante volte, abbiamo ricontrollato i tempi e ci siamo resi conto che non si trattava di un errore», spiega Espaillat. «Questo hot spot non è un cerchio perfetto. È più simile a un arco, con una parte che è più calda e più densa del resto». Una forma unica che spiega lo sfalsamento nei dati alle diverse lunghezza d’onda.
«Questo studio ci insegna che i punti caldi sono “impronte” create dal campo magnetico sulla superficie stellare», conclude Espaillat. Un tempo anche il Sole aveva hot spot – punti caldi, dunque, a differenza delle macchie solari (sunspot), che sono più fredde del resto della superficie – concentrati nelle regioni in cui stava “mangiando” particelle dal disco protoplanetario di gas e polvere. Alla fine i dischi svaniscono, lasciando stelle, pianeti e altri oggetti cosmici che costituiscono un sistema stellare. Studiare giovani stelle che condividono proprietà simili a quelle del Sole è dunque, secondo Espaillat, fondamentale anche per comprendere la nascita del nostro pianeta.
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