Stiamo vivendo un po’ il tempo della paura, l’arcigna consigliera delle nostre rinunce e delle nostre esitazioni, che a volta può paralizzarci del tutto come fanno le “ganasce” con le auto sanzionate in strada. La situazione del momento non la esige, la paura, ma la giustifica ampiamente, e con un tale cliente si viene difficilmente a patti. La paura è la regina nera delle nostre emozioni; può rappresentare quasi allo stesso tempo un blocco inamovibile o la motivazione più forte che si possa avere. Assume diverse sembianze, da un leggero sentore di ansia al panico. Come individui siamo fragili vascelli in balia delle sue sfuriate; in gruppo possiamo però anche scamparla riportando solo qualche lieve danno.
Ricordo una buffa storiellina che girava quando ero piccolo: “Io per me, 80 fiducia, ma la paura fa 90!” La paura insomma fa paura, e può assumere anche la forma di una paura d’aver paura. Viviamoci pure, quindi, la paura, ma non vi ci culliamo. Per il pensiero dell’antichità il saggio non ha paura. Non è vero. Il saggio ha paura ma riesce a conviverci e magari a dominarla.
In effetti la paura ha un suo senso. E’ un campanello d’allarme e un avvertimento per la presenza di un pericolo: occorre scappare o mettersi al riparo. Succede però spesso, e comunque in circostanze come quella che stiamo vivendo, che la paura viva un po’ una vita a se stante, indipendente dagli eventi e dalla loro effettiva pericolosità. Spesso scatta o si esalta senza un motivo reale ed è questo, quello da cui generalmente ci dobbiamo difendere.
Esiste in realtà anche una forma particolare di paura rubricata come malattia, della quale vale la pena di parlare. Mi riferisco agli ‘attacchi di panico’ o ‘crisi di panico’, una patologia non grave ma piuttosto diffusa che tormenta la vita di molte persone. Compreso me, che ne ho sofferto per anni, in un tempo nel quale questa patologia non aveva neppure un nome. Si ha l’impressione di essere assaliti improvvisamente da una scarica di paura, allo stesso tempo specifica e generalizzata. E improvvisamente vuol dire improvvisamente, perché può succedere in ogni momento e senza il minimo preavviso: un fulmine a ciel sereno, insomma. La paura è accompagnata da una serie di eventi somatici che possono cambiare da persona a persona, ma che hanno tutti un elemento comune: un insistente batticuore accompagnato generalmente da una certa commozione viscerale, sudore e una sensazione di morte imminente. Quest’ultimo vissuto soprattutto è il sapore acre della malattia.
Il punto è che la paura rappresenta un segnale d’allarme e come tale non può permettersi di passare inosservata. Per questo alza la voce e si fa sferzante e perentoria. Le prime volte il paziente non capisce di che cosa si tratta, né lo capiscono le persone che gli stanno intorno. Quando però il fenomeno si ripresenta con una certa frequenza, la cosa balza agli occhi e bisogna ricorrere al medico. E il medico oggi può far molto anche se non tutto per tutti. Può suggerire di affidarsi all’assunzione di basse dosi di un qualche tranquillante o il ricorso a una psicoterapia breve o, meglio, una sapiente combinazione delle due cose. In tal maniera molti si liberano dell’inconveniente, che ha spesso però il vizio di ricomparire, mentre per altri il problema è più complesso. Se si dovessero ordinare i vari disturbi cui possiamo andare incontro per la quantità di sofferenza che ci arrecano, gli attacchi di panico si classificherebbero molto bene, forse troppo bene. Non si tratta, abbiamo detto, di un dolore, di un bruciore o di un’irritazione, ma di qualcosa di simile all’esplosione o all’implosione di noi stessi. Una sensazione di annientamento in presenza di testimoni: noi. L’unica consolazione è rappresentata dal fatto che, come dice mio fratello Vieri, medico del corpo e della mente: “più che il sintomo non c’è che il sintomo.”
Una metafora della vita, in fondo. Che cosa sta a significare questa affermazione? Il sintomo è ovviamente quello che osserviamo e sentiamo. E’ certo che queste percezioni non sono piacevoli, ma la nostra preoccupazione principale è che il sintomo rimandi ad altro, a chissà che; annunci cioè qualcosa di ancora più brutto e inaccettabile. L’esperienza clinica suggerisce invece che è tutto lì, spiacevole ma non indicativo di qualcosa di peggiore e di più grosso che starebbe per sopraggiungere. E’ un’affermazione molto tranquillizzante, se non fosse che la caratteristica principale di chi ha paura è che non ascolta. Quando ascolta, anche appena appena, è già tanto, tantissimo. Potremmo anche concludere che la paura è un grande male in sé. Forse addirittura il peggiore.
Di questo occorre tenere conto per affrontare la paura in tutte le sue forme, anche per esempio la paura che coglie molti di noi in frangenti come quello che stiamo vivendo. Nessuno può dire in coscienza che non esiste alcun pericolo, ma questo non va ingigantito né considerato una minaccia ineluttabile. Non siamo nati per stare in poltrona a guardare la televisione, né per goderci un periodo di rilassamento come la pensione dal lavoro. Siamo nati per combattere e rischiare, come ci è successo per millenni, e se tutto questo ci sembra definitivamente superato vuol dire che non abbiamo colto l’essenza della vita umana, sospesa tra l’inferno e il paradiso, due condizione che a loro volta possono solo definirsi a vicenda. Bisogna ammalarsi per capire quanto si sta bene.
Pubblicato sul settimanale 7 del corriere della sera, 8 maggio 2020